venerdì 6 dicembre 2013

Nelson Mandela


Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l'incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l'apartheid! 

martedì 8 ottobre 2013

Ve lo dico prima

Dopo la bellissima figura rimediata sull’Imu – che abbiamo emendato parlando in modo molto impreciso di ‘ricchi’ per poi ritirare l’emendamento anche perché di Pdl adesso ce ne sono due – vorrei capire che cosa stiamo pensando per il futuro.
Cosa possiamo aspettarci dal blocco delle indicizzazioni sulle pensioni d’oro, come le chiamiamo, facendo un po’ di confusione sul concetto?
Stando ad una stima simile di Boeri e Nannicini, al massimo è un miliardo quello che possiamo risparmiare e recuperare.
Il primo scenario chiede “poco a tutti”:
• 2 per cento per redditi sopra sei volte il minimo (2.886 euro lordi);
• 5 per cento per redditi sopra ventuno volte il minimo (10.101 euro lordi).
Il contributo richiesto oscillerebbe da 67 euro mensili per il primo scaglione coinvolto (con un reddito medio intorno ai 3.300 euro) a 1.646 euro mensili per l’ultimo scaglione (33mila euro mensili di reddito). Il gettito atteso sarebbe pari a 922 milioni all’anno.
4 miliardi di gettito Imu sulla prima casa, poi. Ma perchè rinunciarvi? Ci abbiamo rinunciato quando chi guadagna 1600 euro al mese o 30000 lordi all’anno paga il 40% di aliquota al margine tra Irpef e addizionali locali più un 30% (più o meno, a seconda della posizione contrattuale) di contributi.
La proposta è molto semplice: togliamo 5 miliardi di Irpef? Che ne dite per esempio di riportare il primo scaglione dal 23 al 15%? Il secondo dal 27% al 20%?
Forse si tratta di qualcosa di più comprensibile del citatissimo cuneo fiscale, che già una volta faticammo a spiegare.
Infine la Tares tarata su Isee: ma perché? Se è una tassa sui servizi, i cittadini la paghino sulla base del valore immobile e di quante persone ci vivono.
L’Isee che c’è oggi risente troppo dell’evasione perché la sua determinante centrale è il reddito da lavoro: vuol dire ancora una volta gravare su chi le tasse è obbligato a pagarle e non fare nulla per chi evade e magari occupa case incredibili.
Ma cosa aspettiamo a sostenere la parte sana di questo paese?
Possiamo impostare il nostro paese sui lavoratori invece che sui proprietari?
Ecco, possiamo discuterne?

Di civati

venerdì 26 luglio 2013

Supposta

giovedì 18 luglio 2013

Link2sd

Collegare lo smartphone al PC come mass storage 
Se abbiamo una ROM cucinata e non abbiamo mai collegato come mass storage il nostro smartphone al PC, potrebbe non bastare collegare i 2 dispositivi tramite cavo USB. In particolare se abbiamo windows 7 o windows vista, collegando lo smartphone al PC potrebbe apparire un errore nell’installazione dei driver mtp usb. Per collegare il nostro smartphone a windows 7 (vista) come mass storage (ossia per leggere il contenuto della SD dal PC come se fosse un HD esterno) dobbiamo andare in c:\windows\inf\ e spostare i file wpdmtp.inf e wpdmtp.PNF da qualche parte magari sul desktop, ma comunque fuori da una qualunque sottocartella di c:\windows. Solo dopo aver fatto questa operazione, colleghiamo lo smartphone al PC tramite USB. A questo punto sulla barra delle notifiche apparirà il mesaggio USB collegata. Apriamo la barra, facciamo tap sul messaggio e scegliamo “Attiva archivio USB”. Il nostro smartphone è ora collegato al PC e in “Computer” dovremmo vedere un nuovo hard disk esterno.

Usare un programma del PC per gestire le partizioni della scheda SD 
Se non abbiamo la minima idea di cosa sia una partizione, prima di proseguire è necessario farsi un giro in rete per capire cosa stiamo facendo… I programmi per gestire le partizioni di un disco sono davvero tanti, tutti free e tutti utili allo scopo. Qui viene indicato Partition Wizard Home Edition, ma davvero ce ne sono tanti. Lanciamo il nostro gestore di partizioni dopo aver collegato lo smartphone al PC come archivio USB e creiamo due partizioni sulla nostra SD. La prima, primaria, di tipo FAT32, la seconda, primaria anch’essa di tipo EXT4. Destiniamo a quest’ultima partizione circa 1GB di spazio. Ci sono posizioni molto discordanti sulla necessità di creare una ulteriore partizione di swap. In questa sede non verrà creata. A questo punto scolleghiamo lo smartphone dal PC e riavviamolo.

Installare ed usare link2sd
Per installare link2sd ci basta andare su google store e installarlo. Al primo avvio link2sd ci chiederà quale è la partizione che dovrà usare per spostare le nostre applicazioni. Scegliamo la voce “ext4″ e diamo “ok”. Il gestore delle applicazioni di root ci chiederà se concedere o meno l’autorizzazione a link2sd. Confermiamo a mettiamo la spunta che troviamo in basso. A questo punto dobbiamo riavviare lo smartphone. Riavviato lo smartphone rilanciamo link2sd. Questa volta link2sd ci mostrerà le novità dell’ultima versione e poi, dato “OK”, finalmente ci mostrerà un elenco di applicazioni che possiamo gestire come meglio crediamo! Link2sd è un’applicazione molto potente! Cominciamo a studiarne l’interfaccia iniziale. Nel caso della figura qui a lato abbiamo un elenco di 83 applicazioni installate. In alto abbiamo a disposizione 3 icone: - un imbuto - un elenco - una lente La prima icona ci consente di filtrare l’elenco delle 83 applicazioni mostrato in basso. In particolare potremo scegliere se mostrare tutte le applicazioni, solo quelle di sistema, solo quelle installate da noi e così via. La seconda icona invece ci consente di ordinare come meglio preferiamo l’elenco delle applicazioni. Possiamo ordinarle per nome, per data, per spazio occupato e così via. Infine la lente ci consente di identificare un’applicazione tra quelle elencate. Se premiamo il pulsante fisico elenco (quello in basso a sinistra) apriamo il menù. Le voci del menù sono: Selezione-Multipla Spazio Memoria Impostazioni Informazioni Altro La prima voce ci consente di selezionare più applicazioni contemporaneamente. La seconda voce ci fornisce importanti informazioni circa l’uso di tutte le memorie del nostro smartphone. La voce impostazioni ci consente di impostare alcune funzioni di link2sd. La descrizione già presente sotto le singole voci ne identifica le rispettive funzioni. Le ultime due voci sono irrilevanti. Ammettiamo adesso di voler spostare su SD un’applicazione. I casi possono essere 2: vogliamo spostare un’applicazione installata da noi vogliamo spostare un’applicazione di sistema Entrambe le situazioni sono mostrate nella figura che segue. Le prime 2 immagini (App Cache Cleaner) si riferiscono ad un’applicazione da noi installata. Le altre due invece ad un’applicazione di sistema. Facendo tap sulla voce “Sposta su scheda SD” effettuiamo uno spostamento fisico (quello effettuato da app2sd) dell’applicazione. Non è quasi mai la scelta migliore. Inoltre sono poche le applicazioni che sono predisposte a tale funzione. Esse sono indicate da un’icona, posta sotto il nome, con scritto “spostabile” (come ad esempio nel caso di App Cache Clenaer). Facendo tap sul bottone “Azioni” otteniamo due menù leggermente diversi a seconda che l’applicazione sia stata installata da noi o sia di sistema. Mettiamo l’accento sulla voce “Converti ad app…”. Questa voce consente di trasformare un’applicazione di sistema in una normale applicazione, come se l’avessimo installata noi! Questo è molto importante perché in questo modo vengono attivate le voci “Crea collegamento” e “Rimuovi collegamento” e per usare tutta la potenza di link2sd, è opportuno usare proprio la voce “Crea collegamento”. Facendo tap su questa voce infatti, dopo una richiesta di mettere delle spunte che noi lasceremo invariate, avremo la possibilità di spostare l’applicazione su SD. Le prime applicazioni da spostare su SD sono youtube e il google store perché occupano quasi 10MB ciascuna e non ha senso che stiano nella memoria interna. Link2SD è senza dubbio un software fondamentale per chi ha poco spazio interno per le proprie applicazioni. Tuttavia ha un limite: non gestisce la dalvik-cache! Essa resta sulla memoria interna del nostro dispositivo e aumenta le proprie dimensioni con l’aumentare delle applicazioni installate sul dispositivo. Ecco perché, se abbiamo un dispositivo con cyanogenMod 7.x o maggiore, è forse più opportuno considerare l’uso di S2E.

domenica 9 giugno 2013

Come risolvere errore "WindowsUpdate_80246001" "WindowsUpdate_dt000"

L'errore "WindowsUpdate_80246001" "WindowsUpdate_dt000" si può verificare nel tentativo di installare degli aggiornamenti da Windows Update.
Questo problema può verificarsi se la cartella di distribuzione del software di Windows Update è stato danneggiata.
Occorre, pertanto, rinominare questa cartella che verrà ricreata la prossima volta che utilizzerete Windows Update.
Passaggi da compiere:
1. Chiudere tutte le finestre aperte.
2. Fare clic su "Start", poi su "Tutti i programmi" e su "Accessori".
3. Tasto Destro del mouse su "Prompt dei comandi"e fare clic su "Esegui come amministratore".
4. Nella finestra "Amministratore: Prompt dei comandi", digitare net stop WuAuServ e premere Invio.
Nota : Si prega di guardare la finestra e assicurarsi che dica che è stato arrestato correttamente prima di cercare di rinominare la cartella.
5. Fare clic su "Start", nel campo "Cerca programmi e file", digitare %windir% e premere Invio.
6. Nella cartella aperta, cercare la cartella "SoftwareDistribution".
7. Fai clic destro sulla cartella, selezionare "Rinomina"e digitare SDold per rinominare questa cartella.
8. Ancora nella finestra "Amministratore: Prompt dei comandi" digitate il comando net start WuAuServ per riavviare il servizio Windows Update.
Nota : Si prega di guardare la finestra e assicurarsi che dica che è stato avviato con successo.
9. Ritornando in Windows Udpate, cercate i nuovi aggiornamenti e vedrete che ora riuscirete a installarli

martedì 28 maggio 2013

A #Bologna si riparte da 50.000


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E così l’esercito di Serse è stato battuto. Cinquantamila bolognesi (59%) hanno risposto alla chiamata dei referendari e hanno votato A, contro circa 35.000 che hanno votato B (41%).
In totale poco più del 28% degli elettori. Una percentuale che a botta calda consente ai sostenitori della B, il Partito Democratico in testa a tutti, di provare a sminuire la valenza del voto e di spingersi a dire che “si è trattato di una battaglia ideologica che non interessa la gran parte dei cittadini. I bolognesi hanno capito che la sussidiarietà è la chiave di volta laddove lo Stato non riesce ad arrivare” (E. Patriarca). Come a dire: non è successo niente, tireremo diritto.
Invece qualcosa è successo, per quanto possano fare i finti tonti. Il PD infatti non ha sostenuto la linea dell’astensione, ha fatto l’opposto, ha mosso le corazzate e l’artiglieria pesante per mandare la gente a votare B. Si è speso il Sindaco in prima persona (che ha mandato una lettera a casa dei bolognesi per invitarli a votare B, e ha fatto un tour propagandistico per tutti i quartieri), gli assessori, il partito locale, i parlamentari da Roma… Ai quali si è aggiunta la propaganda nelle parrocchie, quella del PdL, della Lega Nord, di Scelta Civica, della CISL, e gli endorsement di Bagnasco, di Prodi, di Renzi, di due ministri della repubblica, più le dichiarazioni di Ascom, Unindustria e CNA.
Questa santa alleanza contro i perfidi referendari ideologici è riuscita a muovere soltanto 35.000 persone (incluse le suore, le prime a presentarsi ai seggi ieri mattina). Significa che una buona parte dell’elettorato di quei partiti e dei fedeli cattolici ha disobbedito agli ordini di scuderia ed è rimasta a casa oppure ha votato A.
Invece un comitato di trenta volontari, appoggiato solo da un paio di partiti minori e qualche categoria sindacale, che ha raccolto l’appoggio di tutti gli ultimi intellettuali e artisti di sinistra rimasti in Italia, ha portato a votare quindicimila persone in più.
Questo dato politico è il più interessante e pesante.
Da un lato perché significa che il tema della riaffermazione del primato della scuola pubblica rompe gli schieramenti, i vincoli d’obbedienza, le usuratissime cinghie di trasmissione, e allude a una sinistra reale che potrebbe e dovrebbe ricostruirsi a partire da alcuni temi fondativi.
Dall’altro lato perché se con le percentuali si può giocare al ribasso o al rialzo, invece con i numeri assoluti c’è poco da fare, vanno presi come sono. E cinquantamila sono esattamente la metà dei voti che Virginio Merola ha preso nel 2011, quando è stato eletto sindaco. Se questa giunta e questa classe dirigente hanno intenzione di tirare diritto, come traspare dalle prime dichiarazioni, dovranno considerare l’eventualità concreta che la marcia, scandita a ogni passo dall’incertezza e dalla paura, termini con una disfatta. Le notizie che giungono dalla capitale non saranno di conforto per lorsignori: un altro mix micidiale di scarsa affluenza e sconfitta; disgusto per gli schieramenti politici e per qualcuno più che per altri.
La risposta a tutto questo è quella di Bologna: organizzazione dal basso e ingaggio della cittadinanza sui temi importanti, sulle scelte di indirizzo. La dimostrazione che “si può fare”.
Dunque oggi si riparte da qui. Da quota cinquantamila. Avanti.

sabato 18 maggio 2013

FINANZIAMENTI PUBBLICI ALLE SCUOLE DELL’INFANZIA PARITARIE A GESTIONE PRIVATA


Nuovo Comitato Articolo 33

Quanto costano alla collettività i finanziamenti comunali alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata? Facciamo un po’ di storia...
Finanziamenti pubblici alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata
Quanto costano alla collettività i finanziamenti comunali alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata? Quanti posti pubblici in più si possono creare ?
Dal 1994 tali scuole ricevono finanziamenti che sono via via cresciuti fino a diventare superiori a un milione di euro all’anno dal 2003 a oggi (1.188.585 euro nel 2011/12). Queste scuole nella stragrande maggioranza di orientamento confessionale fanno pagare rette annuali fra 2.000 e i 10.000 euro. Il numero di iscritti era di 1666 prima dell’inizio dei finanziamenti (pari al 24,3% del totale dei bambini) e nel 2011/123 è di 1726 pari al 22,8% se si contano i 238 iscritti in scuole private non paritarie.
Finanziamenti pubblici alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata
Dal 2000 queste scuole ricevono finanziamenti sia dallo Stato che dalla Regione per oltre un milione e 200.000 euro per un totale nel 2011/12 di 2.435.585 euro. Ogni sezione di scuola d’infanzia comunale in più costa 90.000 fra spese di personale e di funzionamento (vedi delibera n. 212 del 9/10/12).
Finanziamenti pubblici alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata
Con 1.188585 si garantiscono 330 posti pubblici in più ogni anno nelle scuole d’infanzia comunali. Se il Comune avesse a disposizione ogni anno i 2.435.585 euro di finanziamento pubblico totale potrebbe accogliere 677 bambine/i in più e assorbire anche tutti gli iscritti alle scuole paritarie private che ogni anno sono 570.
Finanziamenti pubblici alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata
La lista d’attesa per accedere alle scuole d’infanzia comunali e statali ha raggiunto a giugno del 2012 il numero di 423, il più alto della storia.
Dopo la crescita demografica di fine anni 90 con aumento della lista d’attesa a 301 sotto la giunta Vitali, la giunta Guazzaloca apre fra il 1999 e il 2004 23 nuove sezioni statali. Sotto la giunta Cofferati fra il 2004 e il 2009 vengono aperte altre 9 sezioni statali, la lista d’attesa si mantiene bassa e comunque il saldo fra posti disponibili e lista d’attesa si mantiene positivo. Negli ultimi 3 anni con il nuovo boom demografico vengono aperte altre 8 sezioni ma il saldo diventa negativo e si arriva al record di 423 in lista d’attesa con 0 posti disponibili nel pubblico e 140 posti nel privato a giugno 2012. Da dicembre il Comune ha aperto una sezione statale e 8 comunali ma con orario 8-13. La lista d’attesa si è ridotta a 103, con 96 posti disponibili nel privato.

mercoledì 24 aprile 2013

Il bunker della destra - Marco Bascetta da il Manifesto del 24.04.2013


LARGHE INTESE
Il bunker della destra

MARCO BASCETTA
24.04.2013
Non basta il presente a spiegare il presente. Soprattutto in Italia, dove la "non contemporaneità del contemporaneo" è sempre alacremente all'opera. E di certo vi è solo che non c'è alcuna rivoluzione in corso né in prospettiva, tanto meno quando abbondano i tribuni che la evocano. Il percorso tortuoso conduce a una fine nota: quelle larghe intese che nel nome della "responsabilità" ignorano, quando non reprimono irresponsabilmente tutto ciò che di vivo e di non definitivamente rassegnato esiste ancora in questo paese. Non è la prima volta, ma è la prima volta che una classe dirigente screditata come non mai e nel suo insieme perdente quanto ai numeri e alla capacità di leggere il contesto in cui agisce, si blinda senza offrire alcun compromesso a una società stremata. È qui che i paragoni storiografici di Giorgio Napolitano con gli anni '70 mostrano come la memoria possa volgere in sclerosi e come il pio desiderio di interpretare una nuova situazione con un vecchio paradigma partorisca più mostri del sonno della ragione, fino a confondere le "convergenze parallele" di un tempo con le marcescenze parallele di oggi.
Lo schema è pressappoco quello, collaudatissimo, della vecchia destra comunista da cui il presidente della repubblica proviene.
Consiste, certo semplificando all'estremo, nello stabilire, in accordo con i poteri forti del momento e con i "mercati", una serie di "compatibilità", garantire che le forze sociali rappresentate dalla sinistra le rispettino senza fiatare, nel condannare, reprimere e accusare di fascismo (rosso o a 5 stelle poco importa) ogni forma spontanea di mobilitazione e di dissenso, nell'impedire ogni pretesa di esercizio della democrazia che anche garbatamente si discosti dai canali istituzionali e dagli equilibri politici tra i partiti maggiori. Ne consegue, oltre all'apprezzamento pratico e ideologico dell'austerità, una profonda ostilità nei confronti dello strumento referendario, per non parlare dei movimenti e del conflitto sociale nonché dei diritti di libertà che potrebbero disturbare il mondo cattolico (e cioè i suoi vertici e ideologi).
Nel suo discorso inaugurale Napolitano ammonisce «mai la piazza contro i partiti!». E per cosa mai bisognerebbe scendere in piazza se non contro leggi inique votate da una maggioranza che non riteniamo rappresentarci? Quando questo accadeva 35 anni fa ci pensava il ministro di polizia delle "convergenze parallele" Francesco Cossiga, oggi chi ci penserà? E' una politica che abbiamo vista all'opera innumerevoli volte non solo nelle scelte politiche del Pci, ma anche nella partita sempre aspra tra i vertici della Cgil e le rivendicazioni di democrazia sindacale provenienti dagli operai, dalla base, dai metalmeccanici o altri settori del sindacato. Anche nel sindacato i manovratori non vogliono essere disturbati.
Nel frattempo l'Europa a egemonia germanica ha offerto nuovi argomenti alla politica delle compatibilità, la crisi economica ha provveduto a ridimensionare ogni pretesa, si può fingere che il Pdl non sia poi così diverso dalla Dc, tanto da rendere del tutto superflua la vecchia promessa di repertorio degli "equilibri più avanzati". Le riforme, quelle sì, a sbandierarle non si rinuncia mai. Ma i destinatari a cui debbono piacere sono ormai i capitali vagabondi e capricciosi. Quanto agli altri, da un bel pezzo, quando sentono la parola riforma si rannicchiano per proteggersi la testa dalle bastonate
Questa forma mentis, la dottrina e la pratica patriottica e a democrazia limitata della destra comunista è l'unica solida realtà che il Pds, poi Ds, poi il malnato o mai nato Pd hanno ereditato dalla casa madre ed è infatti l'unica cosa, come dimostra l'impossibilità di rinunciare a Napolitano, che può, in un modo o nell'altro, direi nel peggiore, tenerli insieme, nonostante faide, tradimenti, apocalissi culturali.
E a dispetto di ogni mutamento della realtà e della sensibilità sociale. Il contenuto del richiamo all'unità, alla scelta di maggioranza condivisa, è questo e solo questo. Che si discuta, che ci si laceri in una lotta senza quartiere tra le fazioni, che i militanti occupino i circoli o brucino le tessere, la sintesi politica è alla fine questa: Napolitano presidente, governo di larghe intese.
I grillini non sono gli indiani metropolitani del '77 ( ma maniacali cultori della rappresentanza e dell'obbedienza incivile), il Pdl non è neanche lontanamente la Dc, solo la dottrina della destra del Pci resta se stessa. E i suoi antichi schemi reggono, anche senza un Partito degno di questo nome mantengono clandestinamente in vita una specie di centralismo democratico, raccolgono il plauso di Berlusconi, e naturalmente quello europeo. Come la costituzione sovietica riducono al minimo la democrazia esaltandola oltre misura.
E' la forma più garbata di connubio tra liberismo e autoritarismo ( nel senso di una indiscutibile autonomia dei manovratori, di una prevalenza sacrale dei governanti sui governati ) a tirare le fila della crisi politica nella figura di Giorgio Napolitano. Si può essere un po' cinesi anche se al posto del partito unico ce ne sono parecchi e parecchio rissosi.
Probabilmente solo un convinto esodo dal Pd ( ma, per carità, senza aspirazioni a rifondare) potrebbe porre fine a questa storia, all'ipnosi di una unità che nei termini in cui si è data e in quelli, ancor peggiori, in cui promette di darsi condurrà a una distanza siderale dalla società reale e in conseguenza a una pura e semplice disgregazione.
In altre parole si dovrebbe farla davvero finita col Pci, non con quello immaginario con cui Berlusconi si balocca e terrorizza gli allocchi, ma con quella sua eredità reale di cui si serve e con cui volentieri tratta, quella che ha le facce di Violante e D'Alema, di Veltroni e Fassino e anche di diversi solerti giovani che non sanno nemmeno a quale fonte si abbeverano. Per dirlo in estrema sintesi quel Pci che piace a Eugenio Scalfari.
Questa politica è venuta in piena luce con l'elezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della repubblica così come la natura profonda del Pd e la sua intima resistenza a ogni rinnovamento. Non c'è più niente da "stare a vedere". Luigi Pintor scrisse una volta, a proposito del neonato Pds qualcosa come «pretendono di non venire da nessuna parte e dunque non andranno da nessuna parte». Temo che invece, almeno i più avveduti, dove andare lo sapessero benissimo. Ci sono arrivati, che ora gli piaccia o meno.
Dalle macerie ancora fumanti si leva impaziente la voce dell'ennesimo "rifondatore", un migliorista naturalmente, con poche idee e molta prosopopea. Quello che vuole rendere l'Italia "più smart". Il mondo è davvero cambiato, almeno nel gergo, Giorgio Amendola non parlava così.

martedì 9 aprile 2013

Internazionale » Dieci canzoni contro Margaret Thatcher


MorrisseyMargaret on the guillotine
Margaret on the guillotine è la canzone conclusiva di Viva hate, album del 1988. Nel testo, l’ex leader degli Smiths immagina la morte del primo ministro britannico come un “sogno meraviglioso”.
The kind people
have a wonderful dream
Margaret on the guillotine
The SpecialsGhost town
Ghost town è stata pubblicata nel 1981, durante il primo mandato di Margaret Thatcher. Canzone di feroce critica sociale, soprattutto nei confronti del governo britannico, è ispirata alle strade di Glasgow.
This town’s becoming like a ghost town
government leaving the youth on the shelf
Pink FloydThe Fletcher memorial home
The Fletcher memorial home è contenuta nell’album del 1983 The final cut, l’ultimo dei Pink Floyd insieme a Roger Waters. Scritta dallo stesso Waters, il brano immagina i “tiranni” mondiali del dopoguerra segregati tutti insieme in un ospizio.
Ladies and gentlemen, please welcome Reagan and Haig
Mr. Begin and friend mrs. Thatcher and Paisley
Mr. Brezhnev and party
The ghost of McCarthy
The memories of Nixon
The Blues BandMaggie’s farm
Scritta e registrata da Bob Dylan nel 1965, Maggie’s farm ai tempi è stata interpretata come una dichiarazione d’indipendenza dal movimento folk statunitense. Nel 1980, il gruppo britannico The Blues Band ne ha registrato una nuova versione per protesta contro il governo Thatcher.
It’s a shame the way she makes me scrub the floor
And I ain’t gonna work on Maggie’s farm no more
The ClashThe magnificent seven
Nel 1980 Margaret Thatcher tentò di proibire l’uso della parola “sandinista”, riferita ai guerriglieri del Nicaragua che avevano destituito il presidente Anastasio Somoza Debayle. Per questo motivo, i Clash hanno intitolato il loro quarto album Sandinista!.
So get back to work an’ sweat some more
The sun will sink an’ we’ll get out the door
It’s no good for man to work in cages
NotsensiblesI’m in love with Margaret Thatcher
I Notsensibles, band punk rock di Burnley, hanno scelto una chiave più ironica per criticare la Thatcher, nel loro secondo singolo I’m in love with Margaret Thatcher.
I’m in love with Margaret Thatcher
I’m in love with Margaret Thatcher
I’m in love …with Maggie T
CrassHow does it feel to be the mother of a thousand death?
I Crass hanno fatto della Thatcher una delle loro principali fonti d’ispirazione. Questa canzone, tratta dall’album del 1984 Best before 1984, è una protesta esplicita contro la guerra nelle Falkland.
How does it feel to be the mother of a thousand death?
Young boys rest now, cold graves in cold earth.
How does it feel to be the mother of a thousand death?
The English BeatStand down Margaret
Il gruppo ska The English Beat è stato tra i primi a criticare la Thatcher, come in questo pezzo del 1980 Stand down Margaret.
Stand down Margaret
Everybody shout it
Stand down Margaret
Billy BraggBetween the wars
Il cantautore inglese Billy Bragg, da sempre impegnato politicamente, ha dedicato l’epBetween the wars allo sciopero dei minatori del 1984, inaugurato contro le politiche del governo Thatcher.
I raised a family
In times of austerity
With sweat at the foundry
Between the wars
Elvis CostelloTramp the dirt down
Tratta dall’album del 1989 SpikeTramp the dirt down è una critica feroce al governo Thatcher. Nella canzone, Elvis Costello si augura di vivere abbastanza a lungo per vedere la prima ministra morta.
That’s when they finally put you in the ground
I’ll stand on your grave and tramp the dirt down

sabato 6 aprile 2013

La critica marxista alle teorie della decrescita e dello sviluppo sostenibile


E' ampiamente nota la critica marxista alle teorie della decrescita. L'elemento fondamentale di tali critiche è rappresentata dall'assenza di un'analisi di classe dei processi economici, per cui di fatto i “decrescisti” focalizzano l'attenzione sul volume di produzione in sé (sulla crescita economica in sé) piuttosto che sulla destinazione di tale produzione in plusvalore, rendite e salari. Ciò fa sì che o la decrescita possa amplificare le disparità distributive già esistenti (applicandosi cioè soltanto sui capitalismi a minor tasso di sviluppo, cioè sui poveri), oppure che sia semplicemente impossibile, perché i meccanismi di riproduzione allargata, alla base della formazione del profitto, rendono impossibile una decrescita di tipo solidale ed equo all'interno del capitalismo.
Ciò priva di qualsiasi valore rivoluzionario le teorie dello sviluppo sostenibile, riducendone anche la rilevanza pratica, in termini di preservazione dell'ambiente. Sotto questo profilo, infatti, da un lato, le innovazioni tecnologiche ecocompatibili sono, come tutte le innovazioni, soggette al paradosso di Jevons, per cui di fatto l'introduzione dell'innovazione comporta un aumento del consumo della risorsa ambientale, come si può riscontrare, a puro titolo di esempio, con il consumo di terreno agricolo e forestale indotto dallo sviluppo dei sistemi fotovoltaici ed eolici di produzione dell'energia. Similmente, il passaggio all'economia ad idrogeno, preconizzato da un sacerdote ben comodamente seduto sulla poltrona del capitalismo, come Rifkin, comporterà, se si verificheranno le sue previsioni di abbattimento del costo di produzione e distribuzione di una simile risorsa energetica rispetto a quelle fossili (fatto molto discutibile, ma che non abbiamo qui lo spazio per approfondire) un aumento considerevole dell'intensità energetica delle attività economiche ed antropiche (perché il capitalismo tende ad aumentare l'utilizzo delle risorse a basso costo) ed un boom produttivo, facilitato dall'abbassamento del costo unitario dell'energia, che indurrà quindi una crescita della pressione e degli impatti sulle risorse ambientali in generale. D'altro lato, i suggerimenti che provengono dalle teorie dello sviluppo sostenibile circa un riordino dei modi di produzione e degli stili di vita, che consenta di ridurre l'impatto ambientale, si scontrano inevitabilmente con la legge dell'accumulazione capitalistica, che costringe tale sistema a non interrompere mai il processo di accumulazione di capitale, pena la sua stessa estinzione. Come dice Marx, “la concorrenza impone ad ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva”. Pertanto, o uno stile di vita ed un modo di produzione “ecocompatibile” è anche compatibile con l'accumulazione di nuovo capitale, oppure non verrà implementato. Il fallimento sostanziale dei protocolli di Kyoto sul contenimento delle emissioni di CO2 è paradigmatico.
L’impossibilità della decrescita in ambito capitalistico, o della decrescita felice e volontaria
Per essere concreti, l'applicazione di uno schema di decrescita su scala globale, che sia anche equo, ovvero che miri anche a ridurre gli squilibri di sviluppo, e che sia cioè concentrato soltanto sulle nazioni ricche (con l'ipotesi quindi che le nazioni più povere continuino a crescere), comporta, in uno scenario di crescita demografica come quello tratteggiato dall'ONU da qui al 2020, una riduzione del PIL pro capite delle economie avanzate (valutato in parità di potere d'acquisto, per eliminare i differenziali di cambio) pari al 70,5%, portandole cioè ad un livello di tenore di vita pari a quello attuale di Paesi come la Macedonia o il Sud Africa, livelli cioè inferiori a quelli di Paesi come l'Argentina o il Costa Rica, tanto per capirci. Peraltro, in tale scenario, se i Paesi emergenti continuassero a crescere (poiché la decrescita, come premesso, sarebbe, per motivi equitativi, concentrata nei soli Paesi ricchi) non si avrebbe alcun effetto significativo (tale cioè da salvare la specie umana dall'estinzione) sui livelli di CO2, atteso che il 61,2% del CO2 è prodotto dalle economie emergenti (in particolare, i cosiddetti BRIC, ovvero Brasile, Russia, India e Cina, producono da soli il 61% del CO2 mondiale, lo 0,2% è prodotto dai Paesi più poveri, e solo il 38,8% dalle economie più sviluppate, dato Banca Mondiale). Occorrerebbe quindi chiedere a Cina, India e Brasile di interrompere il proprio impetuoso sviluppo, condannandole a rimanere nella povertà dalla quale solo ora stanno faticosamente uscendo, e condannando anche le economie sviluppate ad arretrare in modo sensibile nel loro tenore di vita. Se si rimane in un quadro capitalistico, quale possibilità vi è di generare un blocco di interesse tale da indurre simili dinamiche? Nessuna, perché il capitalismo è legato indissolubilmente alla crescita: tanto per togliere illusioni ai “decrescisti”, che sostengono che già oggi, a causa della crisi, siamo di fatto in decrescita, è utile dire che nel periodo della crisi, cioè fra 2008 e 2011, il PIL mondiale è cresciuto dell'11,2% in termini reali, e dovrebbe crescere di un ulteriore 4% nel corrente anno. In termini globali, quindi, il capitalismo è cresciuto, perché non può essere altrimenti. Se il processo di accumulazione si ferma per un periodo sufficientemente lungo, il capitalismo crolla, perché non si genera più capitale aggiuntivo da anticipare nei nuovi cicli produttivi, nella misura in cui, non essendovi più plusvalore, non vi è più motivo per anticipare nuovo capitale indispensabile per riavviare un nuovo ciclo di produzione.
Infatti, utilizzando la notazione di Bucharin, il plusvalore s può essere considerato la somma fra accumulazione di nuovo capitale costante (ac), accumulazione di capitale variabile (as) per la successiva fase produttiva e spesa personale del capitalista (b), ovvero s = ac + as +b. Se non vi è accumulazione, s = b, e nella fase successiva si verifica un processo produttivo con un capitale costante c logorato dall'uso produttivo fatto nella fase precedente (cioè ammortizzato in parte) che non può essere sostituito. La perdita di valore del capitale costante per ammortamento e mancata sostituzione comporta un calo del valore della produzione, poiché la produzione P è pari a p = c + v + b (poiché non essendovi accumulazione s = b), dove c è il capitale costante e v quello variabile. Inoltre, la riduzione del plusvalore alle sole spese personali del capitalista provoca una contrazione del saggio del plusvalore e del saggio di profitto, che impedisce di far ripartire, in una fase successiva, il ciclo di accumulazione. Infine, la svalorizzazione del capitale costante riduce la produttività del lavoro, quindi riduce l'estrazione di plusvalore relativo, riducendo quindi, nelle fasi successive, anche il valore di b, che tenderà verso lo zero, comportando l'ulteriore riduzione del valore della produzione, il che non farà altro che provocare disoccupazione, intaccando quindi anche il valore di v, in una spirale che porta il sistema ad autodistruggersi per inedia produttiva.
Ciò spiega perché le grandi crisi economiche non sono crisi di decrescita: la fase recessiva, a livello globale, è solo temporanea, e più che compensata da una successiva crescita, altrimenti il capitalismo stesso sprofonderebbe nel nulla. Gli effetti strutturali che generano non intaccano quindi il livello assoluto della ricchezza creata, ma solo la sua distribuzione, sia fra classi sociali che fra nazioni capitalistiche. Così, la grande depressione degli anni Trenta comportò una redistribuzione della ricchezza parzialmente a favore di alcuni strati del proletariato e della piccola borghesia, tramite le politiche keynesiane, ed una redistribuzione della ricchezza di tipo geografico, a favore degli Usa ed a danno dell'Europa. La crisi attuale sta determinando una redistribuzione della ricchezza a favore del grande capitale finanziario e della grande borghesia all'interno dei Paesi capitalisti avanzati, ed a favore delle economie emergenti dei Paesi BRIC, ed a sfavore di Usa ed Europa, su base geografica. Tale redistribuzione della ricchezza, fra classi ed aree geografiche, è necessaria al capitalismo per ripristinare le condizioni normali di ripresa del saggio di profitto, rideterminando le condizioni per tornare ad avere, da un lato, una domanda solvibile sufficiente a valorizzare il capitale, dopo la fase di eccesso di offerta generatasi nel momento più acuto della crisi economica, e per restituire condizioni di redditività normale a tale capitale, abbassando i costi di produzione.
La gravità della situazione ecologica globale
Quindi non ci può essere decrescita in un contesto capitalistico, ma solo la prosecuzione di una fase di crescita a livello globale, compatibile con alcune aree specifiche di decrescita su scala locale. E tuttavia il tema che pone Serge Latouche, ed in genere l'ambientalismo più radicale, è un tema reale, assolutamente ineludibile. Per usare un lavoro fatto dai borghesi, ovvero il rapporto sui limiti della crescita elaborato dal club di Roma, nel suo aggiornamento del 2004, si scopre che l'impronta ecologica ha superato per più del 20% la capacità di carico massima del pianeta. Sulla base degli scenari previsionali simulati tramite il modello World 3, si scopre in questo modo che nemmeno la decrescita potrebbe evitare una crisi ecologica globale con effetti distruttivi. Infatti, anche in una ipotesi in cui vi sia una stringente programmazione familiare (assumendo che tutte le coppie del mondo decidano di non avere più di due figli, ovvero il minimo indispensabile per riprodurre il livello attuale di popolazione mondiale, senza accrescerla) e si introduca una decrescita perequativa, tale per cui tutti gli individui del mondo si attestino sul livello medio di consumi del 2000, vi sarà un collasso ecologico ed un arresto traumatico della crescita economica entro il 2040. e ciò in ragione del già avvenuto superamento dell'impronta ecologica massima sopportabile. Tale crisi può essere evitata, perlomeno per tutto il XXI secolo, soltanto se a tali condizioni se ne aggiungano altre, ovvero:
a) l'introduzione di tecnologie atte ad economizzare l'uso delle risorse naturali non rinnovabili;
b) l'introduzione di tecnologie atte a sostenere la fertilità delle terre agricole;
c) l'introduzione di tecnologie per ridurre l'inquinamento.
Ciò che si evince chiaramente dal rapporto del club di Roma è quindi che la decrescita, da sola, non può evitare la catastrofe ecologica ed economica prossima ventura, nemmeno se accompagnata da rigide politiche di programmazione familiare. Occorre anche che si introducano innovazioni tecnologiche che, come sappiamo da Schumpeter in poi, vengono introdotte, in ambito capitalistico, soltanto a condizioni che provochino quell'ondata di “distruzione creatrice” in grado di riportare verso l'alto il saggio di profitto degli innovatori, grazie alla rendita monopolistica da innovazione di cui temporaneamente possono godere. E' però molto difficile che alcune delle innovazioni tecnologiche sopra tratteggiate possano essere effettivamente introdotte, per il semplice motivo che non hanno mercato. A chi vendere, ad esempio, tecnologie mirate a risparmiare le risorse naturali non rinnovabili, quando invece il capitalismo allarga l'area dei suoi profitti proprio facendo esattamente l'inverso, cioè aumentando lo sfruttamento delle risorse naturali? E' chiaro quindi che il capitalismo non ha gli incentivi economici interni per evitare il collasso ecologico imminente, non bastando perciò le teorie ecologiste che muovono all'interno del capitalismo stesso, come lo sviluppo sostenibile.
Quindi soltanto una uscita dal capitalismo può salvarci. Su questa affermazione Latouche sarebbe perfettamente d'accordo con me, tanto che lui parla di de-mercificazione dei prodotti (ovvero di sottrazione degli stessi dal ciclo di valorizzazione del mercato) per tornare alla misurazione per valori d'uso, individuali e sociali, cancellando quindi di fatto il connotato di merce dello stesso denaro, che tornerebbe alla sola funzione di intermediario degli scambi, senza valore intrinseco (senza cioè essere una riserva di valore) e ritorno alla produzione su piccola scala, su livello locale, su basi di auto-sussistenza solidale con le altre comunità, anche utilizzando misure di economia autarchica, con l'ovvia conseguenza di spostare la sovranità politica sul livello della comunità locale con forme di democrazia diretta e dal basso, di abolire il plusvalore, perché i beni sarebbero scambiati al loro valore d'uso, individualmente e socialmente determinato, la proprietà privata sarebbe inesistente, o limitata ai soli attrezzi di produzione. Ad occhio e croce, la società descritta da Latouche è qualcosa che sta fra la futura società comunista, in cui a ciascuno viene dato in base alle sue esigenze, e la società libertaria preconizzata da Proudhon.
Che fare? I suggerimenti dell’ecomarxismo
Il problema vero insorge sul come arrivare a tale assetto sociale. Secondo Latouche, per giungervi sarebbe sufficiente l'accettazione volontaria, e “felice”, di modelli di consumo più sobri, di un sostanzioso rallentamento della crescita del volume produttivo, mediante il riuso e la manutenzione, piuttosto che la sostituzione, dei prodotti, l'introduzione di parametri di sostenibilità ambientale e di utilizzo di energie rinnovabili nei cicli produttivi, la destrutturazione del neoliberismo globale mediante forme controllate e solidali di autarchia economica. A prescindere dal fatto che, secondo le elaborazioni del club di Roma, come si è visto, già oggi la decrescita non è sufficiente a salvarci dal collasso ecologico, il problema a mio avviso più grave della visione di Latouche è che tradisce una ingenua fiducia nell'umanità, o una forma di elitarismo intellettuale, il che è lo stesso, perché parte dal presupposto che l'intera umanità coincida culturalmente con la visione illuminata di una piccolissima quota di studiosi, attenti alle conseguenze catastrofiche, per la nostra stessa sopravvivenza, di un capitalismo, il cui principio di crescita continua è incompatibile con la finitezza delle risorse ambientali. Latouche ignora, o vuole ignorare, che l'uomo moderno medio coincide esattamente con la definizione datane da Herbert Marcuse, ovvero quella di “uomo ad una sola dimensione”, educato e istruito, sia dal sistema educativo e formativo che da quello dei media, a schiacciare l'intera sua esistenza sulla retta che va dalla produzione al consumo, limitando la sua prospettiva alla frontiera che va dal suo ruolo di lavoratore a quello di consumatore. Per mettergli in pace l'anima, qualora inizi a chiedersi, angosciosamente, se tale limitatezza di prospettiva non generi danni irreversibili al suo stesso futuro, ed a quello dei suoi figli, intervengono, con funzione consolatrice, le dottrine dello sviluppo compatibile, dell'eco-business e dell'ambientalismo borghese, che sono infatti perfettamente funzionali al capitalismo stesso. Tali teorie gli forniscono infatti l'illusione che, comprando un pacchetto di caffè ad un negozio di commercio equo e solidale, stando attento a separare bene la plastica dall'umido nel suo sistema di raccolta differenziata dei rifiuti, mandando qualche euro alle organizzazioni di volontariato per salvare la selva amazzonica (che nonostante tutte le Ong del mondo, il Governo progressista di Lula e dei suoi epigoni successivi ha massacrato e massacra a ritmi impensabili ai tempi del regime di Soldati) e comprandosi la macchina “Euro 4” sta salvando il mondo. Ci vuole ben altro per salvare il mondo, con l'effetto-serra che ha già indotto cambiamenti climatici irreversibili, modificando salinità e direzione della corrente nord atlantica, e cancellando progressivamente terre emerse superficiali, con una sovrappopolazione che nei prossimi 20 e 30 anni renderà l'acqua potabile cara come il petrolio, con la desertificazione che ha cancellato enormi zone agricole, e che sta procedendo anche nelle aree temperate dalle quali dipende il 60% della produzione agricola mondiale. Ci vuol ben altro, ma l'uomo moderno non lo sa, inserito com'è all'interno di un sistema di ottundimento culturale, funzionale al capitalismo, che il buon Latouche, nonostante le sue doti di comunicatore, non è certo in grado di modificare da solo. E quand'anche una larga maggioranza della popolazione mondiale divenisse consapevole del problema, sarebbe disposta a pagare il prezzo che la decrescita impone, ovvero minor disponibilità di beni di consumo, rinuncia alla droga del consumismo e del carrierismo, che al giorno d'oggi serve per riempire la vita, altrimenti vuota, di milioni di persone? Accetterebbe il consumatore italiano, o tedesco, un tenore di vita analogo a quello di un sudafricano? Conoscendo l'animo umano, mi permetto di essere molto pessimista al riguardo.
Ma il punto fondamentale è che, quand'anche si verificasse questo cambiamento culturale, e quindi emergesse di fatto un nuovo umanesimo globale (perché la decrescita richiede proprio questo, un nuovo umanesimo capace di sottrarre l'uomo moderno alla sua unidimensionalità marcusiana) occorrerebbe una rivoluzione, violenta e sanguinosa, per abbattere il sistema di interessi capitalistico che è ovviamente radicalmente contrario al concetto di decrescita. Quindi la chiave per evitare il disastro non è una decrescita volontaristica. La chiave è la rivoluzione, cioè la lotta di classe. E una rivoluzione non può essere interclassista, come ingenuamente credono Badiale e Bontempelli, in un loro saggio in cui cercano maldestramente di far finta di coniugare Marx con Latouche, per poi smentire l'assunto di fondo del marxismo, ovvero che la rivoluzione la fa il proletariato (“Marx e la decrescita. Per un buo uso del pensiero di Marx”). In realtà l'interclassismo non fa le rivoluzioni. Nessuna rivoluzione mai ha vinto su scala interclassista, per un motivo ovvio: c'è sempre almeno una classe sociale, ovvero quella dominante, che non ha alcun interesse a che la rivoluzione si faccia. A Badiale e Bontempelli vorrei ricordare che gli imprenditori italiani hanno boicottato la conferenza di Kyoto, perché non è nel loro interesse che si abbattano rapidamente le emissioni di CO2. Che il modello di trasporto di merci del nostro Paese, basato sul trasporto su gomma, è stato scelto, nonostante il suo elevato impatto ambientale e sociale e la sua minore efficienza trasportitstica, per favorire gli interessi della più grande azienda automobilistica del Paese, e di alcune lobby (come gli autotrasportatori, così come anche la lobby dell'industria delle costruzioni, che sulla realizzazione e l'ampliamento della rete stradale italiana ha fatto lucrosi affari) e che tale blocco di interessi continua ancora oggi ad ostacolare modalità di trasporto meno inquinanti, come le autostrade del mare. Oppure che l'export dei pesticidi ad uso agricolo, nel mondo, è cresciuto del 92% fra 1999 e 2009, evidentemente sulla spinta di lobbies nell'industria chimica e nel settore agroindustriale, ma anche con il supporto dei contadini, che poi sono quelli che usano materialmente i pesticidi. Evidentemente, non tutte le classi sociali possono condurre una lotta anticapitalista ed ecologista. Fra l'altro, vorrei anche rispondere a Badiale e Bontempelli, che nel loro impeto interclassista chiedono ai marxisti di dimostrare la natura rivoluzionaria del proletariato. Questa natura, cari Badiale e Bontempelli, è dimostrata nelle rivoluzioni socialiste, prima di tutte quella russa, che fu una rivoluzione degli operai e dei contadini. Se poi ebbe una degenerazione, per cause non interamente interne alla stessa Russia, è un'altra questione. Se i nostri due decrescisti nutrono dubbi sulla natura rivoluzionaria del proletariato, suggerisco loro di farsi un giro in Grecia, in questi giorni, oppure di andare a vedere quale fu la base sociale che portò Chávez al potere.
Certo, il proletariato deve assumere una maggiore coscienza della rilevanza fondamentale del problema ecologico, e comprendere che la lotta anticapitalista non può non essere anche, e forse soprattutto, una lotta per la difesa dell'ambiente da una minaccia che, per la prima volta nella storia del genere umano, mette in discussione la nostra stessa esistenza come specie. Però ancora una volta la risposta sul come condurre la lotta andrebbe ricercata in quanto scrisse Marx, avendo l'umiltà di ripiegarsi sui suoi insegnamenti, anziché cercare di liberarsene, per auto nominarsi profeti di nuovi, quanto improbabili, sistemi teorici. Merito di un importante ecomarxista come O'Connor è stato quello di estrarre dagli scritti marxisti la posizione di Marx sulle questioni ecologiche. La chiave di volta ruota attorno a quella che O'Connor definisce come la seconda contraddizione del capitalismo. La prima, quella più nota, è la contraddizione che sorge all'interno dei rapporti sociali di produzione. La seconda è quella che verte sulle “condizioni di produzione”, ovvero quelle che Marx definisce come il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro, e inoltre tutti quegli elementi senza i quali il processo di produzione non potrebbe aver luogo, in particolare:
1. le “condizioni personali”, cioè la forza lavoro umana;
2. le “condizioni esterne”, cioè la natura, l'ambiente;
3. le “condizioni generali, comunitarie”, cioè lo spazio urbano, le comunicazioni, le infrastrutture di trasporto, ecc.
In questo senso, secondo O'Connor, le condizioni di produzione vengono “valorizzate” all'interno del processo di accumulazione capitalistica, tramite l'intervento normativo e politico dello Stato, che ne determina i vincoli e le forme di utilizzo capitalistico. Ovviamente, la direzione e l'orientamento della politica dello Stato è il frutto della lotta di classe, cari i miei ambientalisti interclassisti, quindi la difesa dell'ambiente, così come anche di condizioni socialmente progressive nel settore dell'istruzione, delle infrastrutture sociali, della vivibilità urbana, ecc. sono questioni influenzate dalla lotta di classe. E' il proletariato ad avere un interesse concreto a che l'ambiente non venga valorizzato all'interno delle logiche di accumulazione capitalistiche, perché, se è vero che il conseguente degrado ambientale è un problema dell'intero corpo sociale, è anche vero che i proletari sono i primi a soffrirne, mentre le classi dominanti possono, in un primo momento, trovare forme di protezione da tali danni. Un ambiente urbano insalubre riguarda prima di tutto i quartieri popolari, e solo in un secondo momento, se il degrado persiste, anche le zone residenziali borghesi. Sono gli operai i primi ad avvelenarsi per i fumi tossici della loro fabbrica, prima che questi impestino anche l'aria respirata dal borghese. Sono i poveri del mondo quelli che soffrono per primi della carenza di acqua potabile, perché il borghese ha i soldi per comprarsela, e li avrà anche quando l'acqua costerà come il petrolio, mentre loro dovranno morire di sete. Saranno i poveri i primi a soffrire delle conseguenze della crisi alimentare globale da sovrappopolazione e da desertificazione ed impoverimento dei terreni agricoli. I borghesi i soldi per comprare il loro chilo di pomodori ce li avranno comunque, anche quando i pomodori costeranno come tartufi bianchi.
La lotta ambientale è quindi lotta di classe, ed è strettamente connessa con la lotta politica, economica e sindacale contro il capitalismo, perché il capitalismo non consentirà alcuna decrescita morbida, dolce o felice. Il proletariato se ne dovrà far carico, trovando le giuste connessioni fra la difesa dell'ambiente e la più generale opposizione alle forme di produzione capitalistiche, di cui le condizioni di produzione rappresentano una contraddizione strettamente interrelata. In questo sforzo il proletariato dovrà trovare anche alleanze con i nuovi movimenti ambientali, purché questi siano animati da reale spirito anticapitalistico, e non siano solo la foglia di fico moralistica dietro la quale il capitalismo cela la realtà del crescente dissesto del nostro mondo. Quindi il proletariato dovrà marciare con i nuovi movimenti ambientalisti, che nascono nella galassia dell'anticapitalismo, nel mondo dell'anarchia come in quello dei movimenti civili spontanei. E gli intellettuali come Latouche dovranno elaborare gli strumenti concettuali e pratici in grado di favorire questa connessione rosso/verde, e le parole d'ordine giuste per animare una lotta di classe ed anticapitalistica che sia anche e soprattutto a difesa dell'ambiente, abbandonando utopie moralizzatrici come i richiami vaghi al consumo sobrio, alla solidarietà, alla produzione responsabile, all'economia etica e compatibile, alla decrescita felice, perché non è con queste utopie che si difende l'ambiente, che si trova la via d'uscita da un sistema incapace di non divorare le risorse naturali, ma è con la lotta, che non può che essere lotta sociale, che si ottengono i risultati.
Riccardo Achilli

John Bellamy Foster: Decrescere o morire?

Decrescere o morire?

di John Bellamy Foster

Nel paragrafo introduttivo del suo libro del 2009 Storms of My Grandchildren, James Hansen, principale climatologo USA e massima autorità scientifica mondiale sul cambiamento climatico, ha dichiarato: ‘Il Pianeta Terra, il creato, il mondo in cui la civiltà si è sviluppata, il mondo con i modelli climatici che conosciamo e linee costiere stabili, è in imminente pericolo... La sorprendente conclusione è che il prolungato sfruttamento di tutti i carburanti fossili sulla Terra minaccia non solo gli altri milioni di specie sul pianeta ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa -e i tempi sono più brevi di quanto crediamo’.

Facendo questa dichiarazione, comunque, Hansen stava parlando solo di una parte della crisi ambientale globale che attualmente minaccia il pianeta: precisamente la crisi climatica. Di recente, scienziati di primo piano (compreso Hansen) hanno proposto nove punti-limite planetari, che demarcano lo spazio operativo sicuro per il pianeta. Tre di questi punti-limite (cambiamento climatico, biodiversità e ciclo nitrogeno) sono già stati oltrepassati, mentre altri, come la disponibilità di acqua pulita e l’acidificazione degli oceani, sono falle planetarie emergenti. In termini ecologici, l’economia è ormai cresciuta a una dimensione e un’invasività tali che sta sia travolgendo i punti-limite planetari che facendo a pezzi i cicli biogeochimici del pianeta.

Quindi, quasi quarant’anni dopo che il Club di Roma ha sollevato il tema dei ‘limiti alla crescita’, la crescita economica idolatrata dalla moderna società sta nuovamente affrontando una sfida formidabile. Quella che è nota come ‘economia della decrescita’, associata in particolare con il lavoro di Serge Latouche, è emersa come un’importante movimento intellettuale europeo con la storica conferenza su ‘decrescita economica per la sostenibilità ecologica e l’equità sociale’ a Parigi nel 2008, e ha da allora ispirato una rinascita del pensiero verde radicale, così come si è articolato nella ‘Dichiarazione sulla Decrescita’ a Barcellona nel 2010.

Ironicamente la rapida ascesa della decrescita (décroissance in francese) come teoria ha coinciso negli ultimi tre anni con la ricomparsa della crisi economica e della stagnazione, che in queste dimensioni non si vedevano dagli anni ‘30. La teoria della decrescita ci obbliga perciò a chiederci se la decrescita è praticabile nella società capitalista “crescere o morire”, e se non lo è, cosa ci dice sulla transizione a una società nuova.

Secondo il sito web del progetto europeo per la decrescita (www.degrowth.eu), ‘La decrescita comporta l’idea di una volontaria riduzione delle dimensioni del sistema economico, che implica una riduzione del PIL’. ‘Volontaria’ qui mette l’accento su soluzioni volontaristiche, anche se non individualistiche e improvvisate nella concezione europea come nel caso del movimento per la ‘sobrietà volontaria’ negli USA, dove gli individui, (di solito agiati) scelgono semplicemente di uscire dal modello di mercato ad alti consumi. Per Latouche il concetto di decrescita implica un importante cambiamento sociale: un passaggio radicale dalla crescita come obiettivo principale dell’economia moderna al suo opposto (contrazione, riduzione).


Falsa promessa


Una premessa fondamentale di questo movimento è che di fronte all’emergenza economica planetaria la promessa della tecnologia verde si è dimostrata falsa. Questo si può attribuire al ‘paradosso di Jevons’, secondo il quale una maggiore efficienza nell’uso dell’energia e delle risorse non porta alla conservazione ma ad una maggiore crescita economica, e quindi a una maggior pressione sull’ambiente.

L’inevitabile conclusione -condivisa da un’ampia schiera di pensatori politico-economici e ambientali, non solo quelli collegati direttamente al progetto europeo per la decrescita- è che ci vuole un drastico cambiamento nelle tendenze economiche in atto a partire dalla rivoluzione industriale. Come l’economista marxista Paul Sweezy scriveva più di vent’anni fa: ‘Dal momento che non c’è modo di aumentare la capacità dell’ambiente di sopportare il carico [economico e demografico] che gli viene imposto, ne consegue che la correzione dev’essere operata interamente sull’altro lato dell’equazione. E visto che lo squilibrio ha già raggiunto proporzioni pericolose, ne consegue inoltre che per raggiungere l’obiettivo ciò che è essenziale è un’inversione di rotta, non solo un rallentamento, delle tendenze fondamentali degli ultimi secoli’.

Dato che i Paesi ricchi sono già caratterizzati dal sovraccarico ecologico, appare sempre più evidente che non c’è alternativa, come sottolineava Sweezy, a un’inversione di tendenza alle pressioni sull’ambiente da parte dell’economia. Questo è rafforzato dagli argomenti dell’economista ecologico Herman Daly, che insiste da molto tempo sul bisogno di un’economia a crescita zero. Daly traccia la sua prospettiva a partire dalla famosa discussione di John Stuart Mill sullo ‘stato stazionario’ nei suoi Principi di Economia Politica, dove sosteneva che se l’espansione economica si fosse arrestata (come si aspettavano gli economisti classici), lo scopo economico della società avrebbe potuto essere deviato verso gli aspetti qualitativi dell’esistenza, piuttosto che su un’espansione meramente quantitativa.

Un secolo dopo Mill, Lewis Mumford insisteva nel suo Condition of Man, pubblicato per la prima volta nel 1944, che non solo c’era uno stato stazionario, nel senso in cui lo intendeva Mill, ecologicamente  necessario, ma che questo doveva essere legato a una concezione di ‘comunismo elementare... applicando all’intera comunità i criteri della famiglia’ e distribuendo ‘le risorse sulla base del bisogno’ (una visione mutuata da Marx).

Oggi si pensa che questo ricorso al bisogno per fermare la crescita economica nelle economie sovrasviluppate, e anche per restringere queste economie, abbia le sue radici teoriche in The Entropy Law and the Economic Process [La Legge dell’Entropia e il Processo economico] di Nicholas Georgescu-Roegen, che mise le basi della moderna ecologia sociale.

La decrescita come tale non viene vista neppure dai suoi proponenti come una soluzione stabile, ma come uno strumento per ridurre le dimensioni dell’economia a un livello di output che possa essere mantenuto indefinitamente in uno stato stazionario. Questo può comportare la restrizione delle economie ricche di almeno un terzo rispetto ai livelli attuali tramite un processo che porterebbe a investimenti negativi (per cui non solo cesserebbe l’investimento netto ma neanche tutto il capitale sociale esaurito verrebbe rimpiazzato).

Un’economia a stato stazionario, invece, comporterebbe il rinnovo degli investimenti ma azzererebbe il nuovo investimento netto. Come spiega Daly ‘un’economia a stato stazionario’ è ‘un’economia con stock costanti di risorse umane e mezzi di produzione, mantenuti ai livelli sufficienti che si desiderano tramite un basso tasso di “prestazioni” di manutenzione, cioè tramite i flussi più bassi possibile di materia ed energia’.

Viziato da contraddizioni


È superfluo dire che nessuna di queste cose potrebbe facilmente realizzarsi nell’ambito dell’esistenza dell’attuale economia capitalista. In particolare il lavoro di Latouche, che può essere considerato esemplare del progetto europeo  per la decrescita, è viziato da contraddizioni, che derivano non dalla concezione della decrescita in sé, ma dal suo tentativo di svicolare dalla questione del capitalismo. Questo si può notare nel suo articolo del   2006, The Globe Downshifted, dove argomenta in modo contorto:

‘Per alcuni nell’estrema sinistra la risposta tipica è che il capitalismo è il problema, cosa che ci lascia nell’ansia impotente di muoverci verso una società migliore. La contrazione economica è compatibile con il capitalismo? Questa è una domanda chiave, ma una domanda a cui è importante rispondere senza ricorrere a dogmi, se si vogliono capire i veri ostacoli...

‘Il capitalismo eco-compatibile è concepibile in teoria, ma irrealistico nella pratica. Il capitalismo richiederebbe un alto livello di regolazione per gestire la riduzione del nostro impatto ecologico. Il sistema di mercato, dominato dalle enormi corporazioni multinazionali, non si adatterà mai di sua spontanea volontà al modello virtuoso dell’eco-capitalismo...

‘I meccanismi di contrappeso tra i poteri, così come sono esistiti nella regolazione keynesiana-fordista dell’era socialdemocratica, sono concepibili e desiderabili. Ma la lotta di classe sembra essersi interrotta. Il problema è: il capitale ha vinto...

‘Una società basata sulla contrazione economica non può esistere sotto il capitalismo. Ma il capitalismo è una parola di una semplicità ingannevole per una storia lunga e complessa. Liberarsi dei capitalisti e mettere al bando il lavoro salariato, la moneta e la proprietà privata dei mezzi di produzione farebbe sprofondare la società nel caos. Porterebbe il terrorismo su grande scala... Abbiamo bisogno di trovare un’altra via d’uscita dallo sviluppo, dall’economicismo (come convinzione della supremazia delle cause e dei fattori economici) e dalla crescita: che non significhi abbandonare le istituzioni sociali che sono state annesse dall’economia (moneta, mercati, anche i salari) ma inserirle in una nuova cornice secondo differenti principi’.

In questo stile apparentemente pragmatico, non-dogmatico, Latouche cerca di tracciare una distinzione tra il progetto della decrescita e la critica socialista del capitalismo: (1) dichiarando che ‘il socialismo eco-compatibile è concepibile’, almeno in teoria; (2) dicendo che gli approcci keynesiani e cosiddetti ‘fordisti’ alla regolazione, associati alla socialdemocrazia, potrebbero -se ancora praticabili- addomesticare il capitalismo, ricacciandolo sul ‘virtuoso sentiero dell’eco-capitalismo’; e (3) insistendo sul fatto che la decrescita non ha lo scopo di rompere la dialettica capitale-lavoro salariato o interferire con la proprietà privata dei mezzi di produzione. In altri scritti, Latouche chiarisce che considera il progetto della decrescita compatibile con la continuità della valorizzazione (per es. un aumento dei rapporti di valore capitalistici) e che nulla di ciò che va verso l’eguaglianza sostanziale è considerato fuori portata.

Ciò che Latouche sostiene più esplicitamente in relazione al problema ambientale è l’adozione a ciò che definisce ‘misure riformiste, i cui principi [di economia dello stato sociale] sono stati tracciati all’inizio del XX secolo dall’economista liberale Arthur Cecil Pigou [e] porterebbero a una rivoluzione’ internalizzando le esteriorità ambientali dell’economia capitalista. Ironicamente, la sua posizione è identica a quella dell’economia ambientale neoclassica e diversa dalla più radicale critica spesso sostenuta dall’economia ambientale, nella quale viene duramente attaccata l’idea che i costi ambientali possano essere semplicemente internalizzati nell’attuale economia capitalista.


Implicazioni di classe


La stessa crisi ecologica è descritta’ nell’attuale progetto per la decrescita, come ha osservato criticamente il filosofo greco Takis Fotopoulos, ‘nei termini di un problema comune che “l’umanità” affronta a causa del degrado ambientale, senza citare per niente le diverse implicazioni di classe di questa crisi, per es. il fatto che le implicazioni sociali della crisi ecologica sono pagate soprattutto in termini di distruzioni di vite e qualità della vita dai gruppi sociali inferiori -in Bangladesh come a New Orleans- e molto meno da parte delle élites e delle classi medie’.

Dato che si prende a bersaglio il concetto astratto della crescita economica piuttosto che la realtà concreta dell’accumulazione capitalistica, la teoria della decrescita -nell’influente forma articolata da Latouche e altri- trova naturalmente difficile affrontare l’odierna realtà di crisi economica/stagnazione, che ha prodotto i più alti livelli di disoccupazione e devastazione economica dagli anni ’30 ad oggi.

Latouche stesso ha scritto nel 2003 che ‘non ci sarebbe niente di peggio di una crescita economica senza crescita’. Ma di fronte ad un’economia capitalista chiusa in una profonda crisi strutturale, gli analisti europei della decrescita hanno poco da dire. La Dichiarazione sulla Decrescita, scritta a Barcellona nel Marzo 2010, diceva semplicemente: ‘Le cosiddette misure anti-crisi che cercano di stimolare la crescita economica, a lunga scadenza peggioreranno le disuguaglianze e la situazione ambientale’. Senza aspirare né a difendere la crescita, né a rompere con le istituzioni del capitale -neanche, quindi, a schierarsi con i lavoratori, il cui bisogno più grande oggi è l’occupazione- i principali teorici della decrescita rimangono stranamente silenziosi di fronte alla più grande crisi economica dopo la Grande Depressione.

A conferma di questo, di fronte all’‘attuale decrescita’ nella Grande Recessione del 2008-2009 e al bisogno di una transizione alla ‘decrescita sostenibile’, la nota economista ecologica Joan Martinez-Alier, che ha di recente abbracciato la bandiera della decrescita, ha offerto il palliativo di ‘un keynesianesimo verde di breve termine o un new deal verde’. Lo scopo, ha dichiarato, era quello di promuovere una crescita economica e ‘contenere l’aumento della disoccupazione’ tramite l’investimento pubblico in tecnologia verde e infrastrutture.

Questo è stato considerato compatibile con il progetto della decrescita in quanto questo keynesianesimo verde ‘non diventava una dottrina della crescita economica continua’. Ma come i lavoratori potessero collocarsi in questa strategia largamente tecnologica (fondata sulle idee di efficienza energetica che gli analisti della decrescita generalmente rifiutano) rimaneva incerto.

Infatti, piuttosto che affrontare direttamente il problema della disoccupazione -con un programma radicale che darebbe alla gente posti di lavoro diretti alla creazione di genuini valori d’uso in modi compatibili con una società più sostenibile- i teorici della decrescita preferiscono enfatizzare un orario di lavoro ridotto che separi ‘il diritto a ricevere una remunerazione dal fatto di essere occupato’ (attraverso la promozione di un reddito universale di base). Si pensa che questi cambiamenti dovrebbero permettere al sistema economico di restringersi e allo stesso tempo garantire un reddito alle famiglie -mantenendo nel frattempo intatta la struttura basilare dell’accumulazione del capitale e del mercato.

Ma guardando da un punto di vista più critico è difficile considerare l’attuazione di un orario di lavoro ridotto e di un reddito di base garantiti nelle dimensioni ipotizzate se non come elementi di una transizione a una società post-capitalista (quindi socialista). Come diceva Marx, la regola per il capitale è: ‘Accumulare, accumulare! Così dicono Mosé e i profeti!

Per rompere con le basi istituzionali della ‘legge del valore’ del capitalismo o mettere in discussione la struttura basilare su cui si fonda lo sfruttamento del lavoro (che sarebbero entrambe minacciate da una drastica riduzione dell’orario di lavoro e da un reddito sostanziale garantito) si devono affrontare questioni più ampie di cambiamento di sistema -cosa di cui i principali teorici della decrescita non sembrano disponibili a rendersi conto per il momento. Inoltre un approccio significativo alla creazione di una nuova società dovrebbe assicurare non solo reddito e tempo libero, ma provvedere anche al bisogno umano di un lavoro utile, creativo e non alienato.


Decrescita e Sud


Ancora più problematico è l’atteggiamento dell’attuale teoria sulla decrescita verso il Sud globale. ‘La decrescita’, scrive  Latouche, ‘deve applicarsi al Sud quanto al Nord se vogliamo che vi sia la possibilità di impedire alle società del Sud di percorrere il vicolo cieco dell’economia della crescita. Finché siamo in tempo, non dovrebbero puntare sullo sviluppo ma sull’uscita dal meccanismo -rimuovendo gli ostacoli che gli impediscono di svilupparsi in modo diverso... I Paesi del Sud hanno bisogno di uscire dalla loro dipendenza economica e culturale dal Nord e riscoprire le loro proprie storie’.

Mancando di un’adeguata teoria dell’imperialismo, e non riuscendo ad affrontare il profondo abisso di disuguaglianza che separa le nazioni più ricche da quelle più povere, Latouche allora riduce l’immensa complessità del problema del sottosviluppo a un fatto di autonomia culturale e soggezione al feticcio occidentalizzato della crescita.

Si può fare un confronto tra questo e la risposta molto più ragionata di Herman Daly, che scrive: ‘È un’assoluta perdita di tempo predicare moralisticamente le dottrine sullo stato stazionario ai Paesi sottosviluppati prima che i Paesi sovrasviluppati abbiano preso provvedimenti per ridurre la loro stessa crescita demografica o la crescita del loro consumo procapite di risorse. Quindi il paradigma dello stato stazionario dev’essere prima essere applicato neli Paesi sovrasviluppati... Una delle maggiori forze necessarie a spingere i Paesi sovrasviluppati verso il... paradigma dello stato stazionario dev’essere l’attacco del terzo mondo al loro sovraconsumo... Il punto di partenza nell’economia dello sviluppo dovrebbe essere il  “teorema dell’impossibilità”... che uno stile di vita USA con un’economia ad alto consumo di massa per un mondo di quattro miliardi di persone [la cifra era questa nel 1975] è impossibile, e anche se si ottenesse qualche miracolo, questo avrebbe certamente vita breve.’

La nozione che la decrescita come concezione possa essere applicata essenzialmente allo stesso modo sia ai Paesi ricchi del centro che ai Paesi poveri della periferia rappresenta un errore tipico causato dalla semplice imposizione di un’astrazione (la decrescita) a un contesto nel quale è sostanzialmente privo di significato, come ad Haiti, nel Mali, o per molti versi anche in India. Il vero problema nella periferia globale è quello di superare i legami imperiali, trasformare l’esistente modo di produzione e creare possibilità produttive ugualitarie-sostenibili.

È chiaro che molti Paesi del Sud con redditi procapite molto bassi non possono permettersi la decrescita ma hanno bisogno di un tipo di sviluppo sostenibile, diretto ai bisogni reali come l’accesso all’acqua, al cibo, all’assistenza sanitaria, all’educazione, ecc. Questo richiede che nella struttura sociale ci si allontani radicalmente dai rapporti di produzione del capitalismo/imperialismo. È significativo che negli articoli largamente diffusi di Latouche non vi sia praticamente nessuna citazione di quei Paesi, come Cuba, Venezuela e Bolivia, dove sono in corso lotte concrete per spostare le priorità sociali dal profitto ai bisogni sociali. Cuba, come ha indicato il Living Planet Report, è il solo Paese del mondo che ha un alto sviluppo umano e un impatto ecologico sostenibile.


Co-rivoluzione


È innegabile che oggi la crescita economica sia il principale fattore del degrado ambientale planetario. Ma incentrare la propria intera analisi sul rovesciamento di un’astratta ‘società della crescita’ significa perdere ogni prospettiva storica e buttar via secoli di scienza sociale. Il valore in termini ecologici della concezione della decrescita è solo quello di apportare un genuino significato come parte di una critica dell’accumulazione capitalistica, e parte della transizione a un ordinamento sostenibile, egualitario, comunitario, -nel quale i produttori associati governino la relazione metabolica tra la natura e la società nell’interesse delle generazioni successive e della Terra stessa (socialismo/comunismo così come Marx lo definiva).

Quello di cui si ha bisogno è un ‘movimento co-rivoluzionario’, per usare il pregnante termine di David Harvey, che metterà insieme la critica tradizionale al capitale della classe lavoratrice, la critica dell’imperialismo, le critiche del patriarcato e del razzismo, e la critica della crescita ecologicamente distruttiva (insieme ai relativi movimenti di massa).

Nella crisi generalizzata dei nostri tempi, un movimento così ampio, co-rivoluzionario, è concepibile. Qui l’obiettivo sarebbe la creazione di un nuovo ordine nel quale la valorizzazione del capitale non governerebbe più la società.

‘Il socialismo è utile’, scriveva E. F. Schumacher in Piccolo è Bello, proprio per la ‘possibilità che crea per il superamento della religione dell’economia’, cioè, ‘la moderna tendenza verso la quantificazione totale a spese dell’apprezzamento delle differenze qualitative’. In un ordinamento sostenibile, le persone delle economie più ricche (specialmente quelle degli strati più alti) dovrebbero imparare a vivere con ‘meno’ in termini di prodotti per abbassare il peso procapite sull’ambiente. Allo stesso tempo, la soddisfazione dei genuini bisogni umani e la richiesta di una sostenibilità ecologica potrebbero diventare i principi costitutivi di un nuovo ordine più comunitario mirato alla reciprocità umana, che consenta lo sviluppo qualitativo, e anche la pienezza.

Questa strategia può assicurare alla gente un lavoro che abbia un valore, non dominato dal cieco produttivismo. La lotta ecologica, intesa in questi termini, deve puntare non solo alla decrescita in astratto ma più concretamente alla dis/accumulazione -nel senso di un processo di uscita da un sistema alimentato dall’accumulazione senza fine di capitale. Al suo posto dovrebbe mettere una nuova società co-rivoluzionaria, dedicata ai bisogni comuni dell’umanità e della Terra.

Fonte: http://www.redpepper.org.uk/degrow-or-die/

Leggi una risposta a questo saggio: 'A constructive dialogue for change' di Ted Benton
Traduzione per Senzasoste Andrea Grillo